Cerca nell'Hostaria

domenica 26 settembre 2010

L ‘ ISOLA TIBERINA (der Sor Maurizio)



Lunga vita a Bacco! Cari vignaroli e non dar Sor Maurizio un bel trattato
sull'isola Tiberina

L ‘ ISOLA E IL FIUME CHE HANNO CREATO ROMA-


Una piccola, insignificante isola a forma di cuneo, lunga 270 ml. e larga 67 nei suoi punti di massima estensione, e un modesto fiume di scarsa larghezza e di media portata, hanno contribuito in modo determinante alla nascita di Roma e alla lunga vita di questa città.
C’è un punto in cui il Tevere forma una lunga e ampia curva; in quel punto l’acqua rallenta il suo movimento e si divide in due bracci paralleli per la presenza di un’isola: si tratta dell’isola Tiberina.
E’ un punto cruciale fin dai tempi più antichi perché il fiume in quel luogo ha un livello d’acqua piuttosto basso; la velocità dell’acqua è scarsa e quei due bracci facilmente attraversbil i con zattere.
E’ proprio in quel punto, che già nei tempi più remoti, si era creato un mercato di scambio di prodotti fra le navi che percorrevano il fiume dalla sorgente alla foce mentre e le altre che portavano da Ostia, il sale dalle saline o le merci al porto di Ostia. Mandrie di animali e greggi attraversavano il fiume e una strada passava in quei paraggi che dall’Etruria arrivava fino in Campania, quella strada che , partendo da Roma, gli ingegneri romani tracceranno definitivamente con il basolato e che chiameranno via Appia.
A due passi dall’isola c’erano il Foro Boario per il mercato delle bestie e il Foro Olitorio per quello degli ortaggi e, a poca distanza, un Emporium, un insieme di grossi magazzini adiacenti a un porto fluviale, utilizzati per il deposito, per la conservazione e la vendita dei prodotti.

Una leggenda romana, giunta a noi attraverso lo storico Tito Livio, narra che quando nel 509 a.C. furono cacciati da Roma i Tarquinii, tutte le proprietà personali e private dell’ultimo Re, Tarquinio il Superbo, vennero saccheggiate e distrutte. Era giugno e i terreni coltivati a grano e a farro vennero mietuti e spighe e steli, vennero trasformati in covoni, gettati nel fiume come offerta agli dei perché sarebbe stato un sacrilegio cibarsene. Stessa sorte ebbero le coltivazioni fruttifere, gli alberi e gli arbusti, in seguito all’ira di una folla inferocita e stanca della dittatura etrusca.
In quel punto dove il fiume rallentava la sua velocità, sabbia, melma e ciottoli andarono a depositarsi fra gli arbusti e i covoni, fino a costituire un blocco unico e compatto che col tempo si trasformò in un’isola con il susseguirsi continuo dei depositi fluviali.
Questa è la leggenda tramandataci e confermata anche da un altro storico, Dionigi di Alicarnasso.
Era opinione comune a quei tempi che, prima dell’avvento etrusco, l’isola non esistesse.

Nell’ottocento si pensava che l’isola non fosse altro che una modesta altura formata dallo stesso tufo di origine vulcanica degli altri colli romani ma una recente indagine geologica con trivellazioni effettuate fino a 50 metri di profondità, ha accertato che l’isola si è formata proprio perché in quel punto l’acqua del fiume,in seguito alla grande curva , rallenta di velocità, deposita i suoi materiali, provocando quell’accumulo di detriti,sabbie, ciottoli e ghiaie, che col tempo ha generato quel piccolo rilievo. Poi l’uomo è intervenuto con opere protettive, con grosse massicciate e lastricati , dandole l’aspetto di una nave, rendendola affusolata a prua, per contrastare l’erosione dovuta alla corrente e ponendogli un obelisco come albero maestro per farla assomigliare a una vera nave.

Roma poi cresce, si sviluppa in ampiezza ; vengono costruiti ponti in muratura ben saldi ma il luogo di mercato non cessa di esistere e l’isola non perde la sua importanza perché viene considerata come luogo sacro per la presenza di un tempio dedicato al dio della medicina, Esculapio, l’Asclepio greco.

Già da tempi precedenti , i malati venivano portati sull’isola e curati con un’acqua di pozzo che aveva effetti curativi per quei tempi. Il pozzo esiste ancora ma è stato chiuso già da molti secoli perché l’acqua estratta era divenuta già da allora inquinata.

Ma torniamo alla leggenda.
Narra Tito Livio che,verso l’anno 290 a.C. una terribile pestilenza affliggeva Roma; il morbo imperversava e non dava alcun segno di regresso….i romani morivano come mosche e a nulla servivanmo preghiere e sacrifici agli dei finchè il Senato decise di consultare i libri sibillini.

Questi libri erano testi sacri e profetici in cui era scritto il destino del mondo ed erano consultati solo in casi di estrema gravità; solo che il consulto non era facile perché ciò che vi era scritto poteva essere interpretato secondo diversi criteri.

Gli scrittori latini, per rendere chiaro quanto fosse difficile l’interpretazione dei responsa, ricordano il famoso parere che la sibilla cumana, dava al soldato che le chiedeva se sarebbe tornato vivo dalla guerra. La sibilla era una donna anziana dotata di alti poteri e in condizione di prevedere il futuro, perché ispirata dagli dei.
La risposta scritta era sempre identica per tutti coloro che dovevano andare in guerra: Ibis redibis… non… perieris in bello ovvero “andrai ritornerai… non… morirai un battaglia.” Tutto però dipendeva da come la sibilla pronunciava la frase cioè da una pausa prima o dopo del non..
Se la sibilla diceva: ibis, redibis non, perieris in bello, voleva dire andrai, non ritornerai, morirai in guerra… oracolo nefasto.
Ma se la sibilla diceva: ibis redibis, non perieris in bello: “andrai tornerai, non morirai in guerra”… allora il soldato sarebbe tornato vivo fra i suoi cari.
I romani nel caso di responso negativo, facevano i dovuti scongiuri perché erano di mentalità molto realista e non è che credessero molto agli oracoli.

Comunque questa volta il Senato chiama l’oracolo etrusco perché proceda alla consultazione dei libri sibillini. Il sacerdote addetto, interpreta il vaticinio e il rersponso è quello di rivolgersi al dio della medicina greca, il dio Asclepio.

Il Senato decide subito di inviare una delegazione in Grecia, a Epidauro nell’Argolide, dove c’è un famoso santuario dedicato a questo dio.
Epidauro è infatti una località famosa per la presenza di acque curative, di campi agricoli per la coltivazione di erbe medicinali, piscine colme di acque sorgive curative e luoghi per massaggi e frizioni; per questo era stato creato un complesso di fabbricati e un tempio dedicati ad Asclepio .

Simbolo di Asclepio è un serpente che si avvinghia a un ramo ; il serpente è sacro perché sguscia dalle viscere della terra e quindi porta con se i segreti delle piante medicinali .

Secondo la leggenda, gli ambasciatori romani, giunti a Epidauro, chiedono una medicina o delle erbe da portare a Roma per combattere la pestilenza e i dottori grerci accolgono la loro richiesta favorevolmente ma un serpentello d i quelli sacri gelosamente allevati dai greci in onore di Asclepio, aveva già preceduto le intenzioni di tutti perché si era già andato ad accomodare spontaneamente nella stiva della nave romana. Non solo ma nel viaggio di ritorno, una volta che la nave giunge all’altezza dell’isola Tiberina, il serpente si getta in acqua per andare ad annidarsi fra i canneti. Era chiaro che il dio Asclepio, nelle sue vesti di serpentello e di dio della medicina, aveva scelto la sua dimora sull’isola.

Come per incanto, quando il serpente si adagia fra i canneti, il morbo cessa di essere virulento fino a estinguersi naturalmente e miracolosamente.

Subito viene costruito sull’isola un tempio in suo onore ; il nome del dio viene romanizzato in Esculapio e ne viene introdotto il culto anche a Roma.

Sull’isola esistevano già da tempo i santuari dedicati a divinità per la salute , come Salus, Strenua, Febris e il nuovo culto di Esculapio va a sostituire tutti gli altri.

Naturalmente la legenda narrata da Livio, come tutte le leggende, ha creato la figura del serpente che sceglie Roma come sua nuova sede ma è probabile che in realtà siano invece giunti veri medici greci nell’isola Tiberina e che abbiano dato i primi consigli per fermare l’epidemia: innanzitutto, la cura dell’igiene, poi l’isolamento per il malato in stato avanzato; quindi le giuste cure da prescrivere ai malati.
Secondo la leggenda, Asclepio sarebbe vissuto intorno al 1200 a.C. in Grecia e, istruito dal centauro Chirone, era divenuto un bravissimo medico.

Alla sua morte, aveva lasciato la sua esperienza ai figli: a Macaone, morto durante l’assedio di Troia, aveva svelato la capacità di curare fratture e ferite; a Podalirio, l’abilità di far guarire dalle malattie; alla moglie Epìone e alle figlie Panacèa e Igièa, la qualità di calmare i dolori.

Intorno al X secolo a.C. anche Asclepio aveva ricevuto gli onori dell’Olimpo ed era stato innalzato fra gli dei, come dio greco della medicina.
Nell’antichità un altro medico greco, Ippocrate (460-370 a.C). raccoglierà l’eredità di Esculapio e scriverà un trattato di medicina, il Corpus, (secondo molti studiosi, compilato da più persone e in epoche diverse )

In questo trattato, Ippocrate scrive che, in primo luogo, è necessaria la salubrità del luogo, dell’aria e dell’acqua: in secondo luogo l’osservazione attenta del manifestarsi della malattia nel malato per definire una corretta diagnosi e poter poi intervenire con le giuste cure , la giusta dieta e uno stile di vita adeguato a evitare le ricadute.

Con la costruzione del tempio dedicato al dio Esculapio, l’isola Tiberina comincia a essere chiamata Insula Aesculapii e diviene il punto di riferimento di tutte le pratiche mediche già da tempo in atto nella Grecia. Il paziente che ricorre ai medici del santuario è , per prima cosa, soggetto a una stretta igiene corporea e a una dieta, per un periodo di purificazione. Poi viene ammesso nell’area sacra del tempio e sottoposto a diete e ad altre pratiche di igiene ancora più accurate e gli viene concesso di dormire sotto il portico del tempio, sdraiato su pelli di capra .

Probabilmente il sonno gli veniva provocato da droghe e al malato appariva in sogno profetico il dio Esculapio che gli forniva consigli terapeutici.
In realtà sembra che fossero gli stessi sacerdoti che, travestiti da divinità, si aggiravano fra i malati, durante il loro torpore provocato dalle droghe e che intervenivano con vere cure o con operazioni chirurgiche fin dove era possibile curare.. Qualcosa del genere avveniva già a Epidauro, la località per eccellenza della Grecia in cui si adorava Asclepio e, col passare del tempo, anche l’insula Aesculapii si fornisce di palestre, locali per i massaggi e frizioni ; si inizia lo studio delle patologie e delle terapie di guarigione ma sempre sotto un alone di mistero e di intervento divino.

I pazienti guariti , come segno di riconoscenza al dio, lasciavano un loro voto consistente nella riproduzione in terracotta della parte del corpo risanata per cui sono stato trovati ex-voto riproducenti orecchie, occhi, polmoni, seni, falli e organi vari del corpo umano.

Durante il periodo imperiale il culto del dio Esculapio raggiunge il culmine della popolarità ma con l’avvento del cristianesimo e la caduta del mondo romano,
tutti i templi pagani o vengono abbandonati o sono soggetti alla distruzione dal fanatismo religioso dei cristiani. Anche il tempio di Esculapio non sfugge alla sorte comune Quel che resta dell’antico tempio pagano, intorno all’anno 1000 e per opera dell’Imperatore germanico, il sassone Ottone III, viene trasformato in una chiesa dedicata all’apostolo San Bartolomeo (il santo patrono di chi è soggetto a convulsioni) e la stessa isola prenderà il nome appunto di questo santo mentre le antiche strutture verranno trasformate in ospedale.

C’è da tenere presente che nonostante l’abbandono e la precarietà della struttura semi demolita, medici pagani e medici cristiani, si sono avvicendati senza soluzione di continuità , collaborando insieme fra quelle mura, pur di dare sollievo a coloro che con qualsiasi fede si presentavano per essere guariti.

Nell’isola, verso il 1300, si apre anche una Università per lo studio della medicina e viene stabilito un concetto molto importante : l’ hospitalità, cioè il pensiero di accogliere cum pato il paziente, cioè “soffrire con lui” per meglio capire lo sviluppo e la terapia adatta per guarirlo dai mali. Contemporaneamente il paziente dove essere accolto non solo come individuo malato ma anche come colui che ha necessità di essere rifocillato e desideroso di parole di conforto oltre che di assistenza .Opera di queste umanità sono i Frati Benedettini che si impegnano in prima linea.

Nella loro regola viene stabilito il dovere di curare l’igiene personale dell’infermo, la pulizia della camera, quella del suo letto, dei bagni oltre a provvedere a occuparsi della cucina e del cibo da dare al paziente.

Le tante malattie dell’epoca, come la peste, il colera, il tifo, come anche le guerre, hanno contribuito a un forte calo demografico e Roma nel 1528, dopo il saccheggio dei Lanzichenecchi, la città conta appena 32.000 abitanti e molte zone di Roma sono ridotte a prati dove pascolano tranquillamente buoi, pecore, maiali e si aggirano animali da cortile le cui deiezioni organiche contribuiscono ad aumentare le malattie .I lastricati di marmo e le colonne, e quel poco che è rimasto ancora di sano del ricordo dell’antica maestosità, è scomparso sotto metri e metri di sedimenti dovuti alle inondazioni del Tevere, fanghi che nessuno per secoli ha più provveduto a rimuovere.
La presenza perciò di tanti terreni e paludi e di tanti animali che vivono promiscuamente con la popolazione, contribuisce notevolmente allo sviluppo di ulteriori malattie e particolarmente di quelle legate ai parassiti.

Il notevole aumento dei malati che convergono a Roma per cercare assistenza sanitaria fa nascere nuovi ospedali come il Santo Spirito in Saxia e il San Giacomo.
Si sviluppa, per il bene del prossimo un ulteriore concetto: l’assistenza non deve più essere generica ma razionale e specifica e a questo contribuiscono non solo le opere caritatevoli dei frati ma anche intere categorie di medici e chirurghi specializzati nelle cure dei vari tipi tipo di malattia.
L’impegno dei monaci e dei laici è notevole ma purtroppo negli infermieri non religiosi , col passare del tempo, non c’è più quella forza interiore che fa vedere nel malato il proprio alter ego come imponeva la regola. Il paziente viene invece visto sotto l’aspetto di una persona diversa dagli altri, menomata, debole e per questo spesso soggetta a violenze e intolleranze.

E’ a questo punto che appare sulla scena San Giovanni di Dio.
In realtà Juan Ciudad; in origine era un poco di buono, un avventuriero che per quarant’anni ne ha combinate di tutti i colori.
Un giorno, la predicazione di Giovanni d’Avila lo colpisce …è una ispirazione che ne cambia completamente il carattere : improvvisamente comincia ad avere pietà dei malati e a dedicarsi alla loro assistenza tanto che viene preso per pazzo e rinchiuso per due anni in galera.
Una volta uscitone, con due suoi buoni amici, fonda nel 1539 la congregazione dei Fratelli Hospitalieri che per loro regola devono assistere i malati con la massima comprensione, amorevolezza, carità e compassione.
Il Papa Pio V molto tempo dopo, circa trentasei anni dopo la morte di Juan, riconoscerà ufficialmente la congregazione e le darà il nome di frati Fatebenefratelli ispirandosi alla frase che il Santo era solito rivolgere ai passanti quando chiedeva la carità (fate del bene, fratelli). Questi frati giravano per la città con una cesta e una borsa, vestiti di una tonaca sdrucita e corta e, ai loro piedi portavano sandali usurati anche d’inverno, senza curarsi del freddo.
Con loro avevano un campanaccio e lo suonavano per richiamare l’attenzione dei passanti al fine di raccogliere con la questua, abiti usati e denari da devolvere ai poveri e ai malati dell’hospitale, mentre invitavano tutti a pregare per le anime del purgatorio.

Nel 1581 i Fatebenefratelli, con i denari delle questue e dei frequenti lasciti di somme e di terreni, fondano a Roma, a piazza di Pietra, un piccolo ospedale ma l’ambiente è troppo ristretto tanto che il Papa Sisto V gli dona un terreno sull’Isola Tiberina e tremila scudi per la costruzione di nuove sale da adibire a ricoveri. e nel 1586 il Papa trasforma la congregazione dei frati fatebenefratelli in ordine monastico.I frati fatebenefratelli subentreranno poi definitivamente ai benedettini, nella conduzione dell’ospedale nell’isola Tiberina.

Ora il malato non è più soggetto a una assistenza solamente caritativa e lenitiva del dolore ma lo scopo principale del medico è di curarlo per dargli la guarigione e reinserirlo poi nella vita comune, guarito da ogni male. I medici psichici avevano l’incarico di stabilire i motivi della malattia; a questi seguivano i chirurghi in grado di operare salassi e piccoli interventi . Susseguentemente, se era necessario, intervenivano quelli che ora chiamiamo medici specialisti, dottori particolarmente esperti in ogni ramo della medicina .

L’opera dei frati benefratelli dà subito risultati immediati e nel 1600 il salone dell’infermeria raggiunge una disponibilità di cinquanta posti letto e già nel 1617 viene stipulato un vero galateo dell’infermiere. Una trentina di frati avevano il dovere di accogliere i malati con carità e amore. L’ infermo veniva accuratamente lavato e vestito di un abito bianco; gli veniva posto un berrettino bianco in testa e il suo letto era rifatto con lenzuola candide e se il malato era grave, lo stesso infermiere provvedeva a scaldargli il letto infilandosi fra le lenzuola prima di lui.
Altri compiti dei frati- infermieri erano quelli di aiutare l’infermo a mangiare, a bere e ad accompagnarlo per le sue necessità .
Il malato, dopo l’accettazione, veniva messo a letto e, in attesa della visita medica, confessato e comunicato.

Agli infermi più gravi, dopo l’estrema unzione, un fratello, un monaco, aveva l’obbligo di stargli vicino fino all’ultimo momento facendogli tenere in mano un Crocefisso ed esortandolo ad essere forte e aver fede fino al momento del trapasso.
Non esistevano però solo posti letto ma anche le cosidette cariole, come vernivano chiamati i letti con le ruote ; con quelle, i religiosi giravano per le strade a raccogliere i malati da portare in ospedale.

Un evento brutale che travolge e pone in crisi l’ospedale dell’isola Tiberina è quello della peste bubbonica del 1656.Da Napoli, la terribile malattia si era propagata in Sardegna. Un marinaio proveniente proprio dall’isola sarda , sbarca a Civitavecchia ed è subito trasportato e e ricoverato nell’Isola Tiberina ma muore dopo quattro giorni. Nel breve tempo dei dieci giorni seguenti, muoiono due frati infermieri con i classici sintomi della peste, mentre altri frati e degenti cominciano ad avere gli stessi segni del terribile morbo.
Il frate priore,Girolamo Castaldi , come prima opera di prevenzione, ordina che tutti coloro che provengono da Civitavecchia, siano posti in quarantena fuori Roma in località Casaletto, oltre il Gianicolo. Altra misura imposta è quella del divieto a medici e farmacisti di allontanarsi da Roma pena la condanna a morte. Il morbo si propaga ugualmente e poiché la zona più colpita è quella di Trastevere. Viene elevato un muro per isolare il quartiere ma senza ottenere alcun esito positivo.
In questa situazione si decide che anche l’Isola dovrà essere sgomberata entro 24 ore e dovranno restare solo i frati addetti all’assistenza degli infermi mentre i Frati francescani si dovranno trasferire nel convento dell’Ara Coeli e i frati Fatebenefratelli nella sede del loro istituto di convalescenza in Santa Maria della Sanità sul Viminale.

Dall’isola vengono fatti uscire di forza anche gli abitanti civili; le porte e le finestre delle loro case sono sprangate.
Medici e chirurghi vengono invece alloggiati nel convento di San Bartolomeo.Quello che era un ospedale di cura si trasforma in un lazzaretto dove vengono portati gli uomini infetti mentre le donne sono tutte raccolte nella Torre dei Caetani, altro lazzaretto sempre nell’isola.
I due ponti che collegano l’isola alla terraferma, il ponte Fabricio e il Cestio, vengono muniti di cancelli e chiunque li passa per dirigersi verso l’isola, viene accuratamente selezionato in relazione allo stato della malattia ma, oltre ai malati, una gran quantità di gente varca ogni giorno quei cancelli: sono carrettieri, barcaroli, barellieri , addetti al trasporto sia dei morti che dei malati. I morti per il morbo vengono immersi nella calce mentre i non cristiani sono caricati su chiatte e portati fuori Roma e sepolti in luoghi isolati e lontani dalla città

Nonostante le grandi difficoltà incontrate , le forme di igiene e di prevenzione contro il morbo hanno dato a Roma ottimi risultati : i morti sono stati appena 12.000 rispetto ai 60.000 di Genova e i 200.000 di Napoli.
Il 18 ottobre del 1656 la peste termina il suo effetto devastante e viene dato il benestare al rientro dei comuni cittadini nell’isola.

Qulche decennio dopo, nel 1696, fa la sua apparizione una nuova epidemia in seguito alle acque malsane stagnanti nella zona di Prati di Castello e nei fossati di Castel Sant’Angelo; le acque di due piene che si erano depositate non erano state assorbite e portate via . A quell’epoca ogni forma di epidemia era considerata pestilenza ma probabilmente si trattava di una forma di malaria o di tifo o di colera e i Fatebenefratelli ancora una volta sono i prima fila contro i contagi.

L’ ospedale col tempo migliora e aumenta la propria disponiblità e qualche anno dopo dispone di 60 posti letto e può permettersi un traffico di 2.000 malati all’anno.

Le burrascose vicende del periodo repubblicano dei francesi a Roma, non arrecano gravi danni alla fama dell’ospedale e GregorioXVI affida ai Fatebenefratelli anche la gestione di due ospedali romani:il San Giacomo e il San Gallicano.
Già negli anni del 1600 mentre in molti ospedali europei c’era l’usanza di porre in ciascun letto anche due o più pazienti ma nell’ospedale tiberino in ogni letto veniva posto un solo malato e ciascun letto aveva a disposizione un baldacchino con tendaggi per rispettare n po’di intimità e ogni posto- letto, doveva disporre di almeno due metri quadri di spazio libero.Le lenzuola nell’ospedale tiberino venivano continuamente cambiate mentre negli ospedali di Parigi questo avveniva solo tre- quattro volte all’anno, con conseguenti enormi problemi igienici e frequenti risse fra gli occupanti lo stesso letto.

Sia il Gregorovius che Martin Lutero in epoche diverse hanno più volte elogiato l’efficienza dell’ospedale tiberino mentre altrettanto non si puo parlare di quella di altri opedali romani e nel 1555 Bernardino Cirillo, appena nominato governatore, parlava dell’altro ospedale, il Santo Spirito in Saxia, come luogo “pessimo e abominevole”

L’ importanza assunta dall’Isola Tiberina e dal suo hospitale era tale che non sempre i fatebenefratelli di San Giovanni di Dio erano in condizione di affrontare da soli le varie tristi evenienze che si presentavano;in loro aiuto intervenivano infatti alcune confraternite che si interessavano dei morti e del loro seppellimento.

I “sacconi rossi” erano una confraternita con sede tutt’ora, nel fabbricato adiacente la chiesa di San Bartolomeo all’Isola. Questi erano civili che indossavano lunghi sai rossi; erano incappucciati e avevano il meritevole compito di raccogliere gli annegati nel Tevere, dar loro sepoltura e pregare per la loro anima. Per appartenere a questa Opera Pia occorreva essere benestanti o avere attività commerciale .

La confraternita iniziò a prestare la sua opera fin dal dal XVI secolo finchè nel 1776 venne ufficialmente approvata e ufficialmente riconosciuta da Papa Pio VI.

Anche al giorno d’oggi i sacconi rossi esistono ma naturalmente le attuali leggi non permettono loro il recupero degli annegati, per cui si dedicano all’insegnamento delle pratiche per avviare alla professione di infermieri.
Dal 1993 la confraternita, insieme alle altre,ogni due novembre, alle 18 di sera, assistono a una Messa solenne nella chiesa di San Giovanni Calabita sull’Isola e poi tutti insieme, in processione e al lume delle torce, fanno il giro dell’isola pregando e asl termine del percorso, gettano nel fiume una corona di fiori in onore degli sconosciuti morti affogati o assassinati , o suicidi.

Altra confraternita era quella dei sacconi bianchi con sede in San Teodoro alle pendici del Palatino .Portavano una tunica bianca con cappuccio e sul davanti avevano il disegno del Sacro Cuore del Suffragio da cui presero il nome. Giravano per la città ammonendo il popolo a non bestemmiare e chiedendo l’elemosina ; loro compito principale era l’ assistere i poveri e visitare quotidianamente i carcerati.
Un’altra congregazione era quella dei Fratelloni della Morte,con lunghi sai e cappucci neri.Questi giravano invece per la campagna in cerca dei morti cui poter dare un seppellimento cristiano.
Alla metà del 1800 c’era ancora l’usanza che il giorno della festa di San Bartolomeo venivano offerti al popolo cocomeri interi o poggiati sulle sponde del fiume o sui muretti dei due ponti, con gran tripudio specialmente dei ragazzini che si gettavano anche a Tevere per andare a recuperare quei cocomeri che cadevano nell’acqua. L’usanza poi fu abolita perché spesso la corrente trascinava i ragazzi verso le pale dei mulini, provocandone la morte.

Spesso e volentieri l’isola è stata trasformata in un fortilizio; la sua era una posizione strategica che permetteva il controllo di buona parte della città in destra e in sinistra del Tevere oltre al concedere la possibilità di ispezionare le navi di passaggio fra i due bracci del fiume. Non sono stati pochi i Papi che al momento opportuno si sono insediati sull’isola specialmente durante il periodo delle guerre fra Guelfi e Ghibellini .

Il maggiore pericolo per Roma sono state sempre le inondazioni… bastavano pochi giorni di pioggia che le acque del Tevere si gonfiavano e crescevano a dismisura. Una enorme massa d’acqua, proveniente dall’Aniene e dai numerosi affluenti dei due fiumi si riversava poi nell’ alveo del Tevere con conseguenze letali.

Il fiume improvvisamente straripava e il grido” è sortito fora fiume” voleva dire raccogliere i propri panni e se possibile fuggire sui colli. per salvarsi con tutta la famiglia. L’acqua invadeva la città e le zone più basse venivano allagate con gravi pregiudizi per la povera gente e solo i barcaioli, su ordine del Papa, riuscivano a portare un po’ di pane e acqua ai romani rimasti bloccati nelle loro case.
L’alluvione per i romani voleva sempre dire sofferenze, fame, sete, freddo, angoscia,e spesso anche epidemie.

Già nel 1157, durante una delle solite alluvioni, il corpo di San Bartolomeo nell’Isola Tiberina, dalla chiesa a lui dedicata, era stato trasportato via dalla corrente ma poi ritrovato per un miracolo allo stesso posto da dove era stato rimosso.
Ancora nel 1530 l’acqua era salita vorticosamente e aveva invaso la chiesa del Santo. Nel 1550 veniva ancora danneggiata la chiesa e il convento adiacente; il corpo del Santo venne allora precipitosamente portato nella basilica Vaticana. I malati dell’ospedale tiberino vennero tutti trasportati ai piani superiori dell’ospedale e degli edifici annessi.

Le fuoriuscite del fiume si sono susseguite fin dai tempi più antichi e del periodo dei Romani ci sono cronache che parlano delle frequenti inondazioni solo che a quei tempi si allagava solo il Campo Marzio, una zona molto bassa di Roma che dall’attuale piazza del Popolo si sviluppava fino a Piazza Venezia ma allora e prudentemente,quella zona era pochissimo abitata dai cittadini e quel territorio era chiamato “ campo di Marte” dove una volta si svolgevano abitualmente le esercitazioni militari degli antichi romani.

E’ solo al tempo del l pontificato di BenedettoXIV, fra il 1740 e il 1756, che si chiede un rapporto a due ingegneri, Chiesa e Gambarini, sulle possibilità di evitare al massimo i danni delle inondazioni e l’esito dello studio rileva che effettivamente che esiste una larga curva del fiume che rallenta l’ondata di piena e quindi il fiume a monte, si gonfia ancora di più. Inoltre la stessa isola è un impedimento allo scorrere delle acque e anche la presenza dei mulini per la macinazione del grano contribuivano a rallentare lo scorrimento dell’acqua per cui occorreva per prima cosa, spostare i mulini in altri siti più a valle.Il progetto però non ebbe alcun seguito.

Nel gennaio del 1791 l’architetto Marini presenta un progetto nuovo: riempire di terra il lato sinistro del fiume, quello fra l’isola e il Ghetto e allargare il braccio destro, quello dalla parte di Trastevere. Frattanto una parte dell’isola crolla travolgendo anche i resti del tempio dedicato al dio Fauno sicchè si viene a creare un ulteriore terzo braccio di scorrimento dell’acqua rendendo impossibile anche ogni sorta di navigazione, sicchè anche il progetto del Marini viene abbandonato. Lo sperone rimasto in piedi, oramai in modo instabile, viene subito demolito e con l’occasione si abbattono anche una parte delle vecchie casupole ancora esistenti, facendo nel contempo riprendere all’acqua il suo vecchio tragitto fra i due bracci secolari.
Con l’arrivo dei piemontesi, si ricomincia a studiare la possibilità di trovare un rimedio per evitare le frequenti inondazioni.
Constatato che l’isola era in pratica una barriera che ostacolava il passaggio delle acque tumultuose, un primo e affrettato progetto prevedeva di far saltare l’isola con la dinamite… ottima idea…. che fortunatamente il ministro dei Lavori Pubblici del governo Zanardelli respinse per ragioni storiche e sanitarie ma anche per non perdere la faccia dinanzi al mondo intero. Il non essere riusciti a trovare una soluzione accettabile al problema sarebbe stata una cosa vergognosa quando da tutta Europa venivano medici a studiare a Roma sia l’arte sanitaria , sia l’organizzazione dei frati fatebenefratelli di San Giovanni di Dio e non si poteva permettere un tale scempio e una tale dimostrazione di incapacità.
Solo nel 1876 viene deciso di costruire gli altissimi muraglioni che si vedono tutt’oggi e per ben 50 anni i lavori sono proseguiti fra mille difficoltà e altrettante indecisioni per terminare nel 1926.. Interi porti fluviali e opere millenarie vengono seppelliti sotto i riempimenti per creare il lungotevere, la strada di scorrimento che costeggia l’apice dei muraglioni a 15 metri di altezza dal livello del fiume , per evitare che l’acqua fosse contenuta senza che potesse sommergere nuovamente la città.

Mi viene in mente un particolare : a lavori ultimati, mia bisnonna volle godersi lo spettacolo del fiume visto sall’alto e non più a contatto umano.Appoggiò mia madre appena cinnquenne sul muraglione, seduta ma stringendola forte a se, per farle vedere il fiume incatenato. Improvvisamente il muraglione comicia a vibrare…-. Un boato tremendo si sente sempre più avvicinarsi mentre fra una nuvola di polvere molti materiali cadevano nel fiume… uno sguardo: il muro stava sfaldandosi come fosse di semplice terra. Un attimo… , il tempo di un secondo e mia nonna afferra mia madre e scappa velocemente il più lontano possibile….Quel giorno crollarono ben 192 metri di muraglione fra Ponte Cestio e Ponte Garibaldi e se non ci fosse stata la prontezza di reazione di mia nonna tutte e due sarebbero rimaste travolte e io non sarei stato qui a raccontarlo.

Con la costruzione dei muraglioni fnisce così quel rapporto diretto millenario dei romani col fiume . Quel fiume è stato utile per la navigazione e come fonte per acqua da bere da quando i Goti avevano interrotto gli acquedotti .L’acqua che per secoli si riversava in città con le inondazioni contribuiva a creare quelle zone endemiche soggette alla malaria per l’ acqua stagnante. Con la costruzione dei muri, finivano finalmente anche una buona parte dei pericoli di inondazioni e adesso il Tevere è solo una grossa fogna che scorre a cielo aperto e solo pochi fiumaroli scendono le scalette per raggiungerne il greto e fare bagni……. di sole negli stabilimenti fluviali.

Tornando ai problemi dell’ospedale, le cose vanno poi a complicarsi con l’estensione alla città delle leggi italiane.Tutte le proprietà ecclesiastiche devono essere requisite e incamerate dallo Stato Italiano e l’8 febbraio 1878 anche il secolare ospedale viene sequestrato e gli ordini monastici sfrattati. Potevano però rimanere quei frati che si fossero sciolti dal loro voto religioso e nella nuova qualità di civili, avrebbero potuto proseguire a prestare i loro servigi agli ammalati.
Dinanzi a una simile prevaricazione i frati sono costretti ad abbandonare l’isola e l’ospedale passa di proprietà del Comune che non è in grado di gestirme le funzioni . Tutto viene allora rimesso nelle mani di una speciale Commissione e da questa poi in quelle di un Commissario Regio con poteri eccezionali.

Ai prini del novecento l’ospedale raggiunge un degrado pauroso e preoccupante e lo stesso Regio Commissario ne consiglia la vendita a un certo signor Letnert per 400.000 lire un tizio che non era altro che un conosciuto prestanome dei fatebenefratelli . Come per incanto, avvenuta la cessione e tornati gli ordini monastici, l’ospedale riprende immediatamente a funzionare secondo le antiche tradizioni.
E’ il solito giochetto all’italiana in cui la mano destra fa finta di non sapere ciò che fa la mano sinistra.
Le opere di ristrutturazione però seguitano ad avere sempre un carattere urgente oltre alla continua necessità di espansione dell’Ospedale.

Con i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, viene riconosciuta al Papa la sovranità sul Vaticano e la possibilità agli Ordini religiosi di possedere immobili ma solo nel 1937 la società rappresentata dal signor Leitner e soci, cederà ufficialmente la proprietà dell’ospedale all’Ordine di San Giovanni di Dio, ai frati Fatebenefratelli.

D’accordo con il regime fascista, l’Ordine ottiene la possibilità di poter demolire tutti i fabbricati privati presenti nell’isola, ormai fatiscenti e nel 1932 con uno sforzo finanziario non indifferente e con il concorso di capitali sia dell’Ordine, sia del Vaticano, si demoliscono anche le più antiche strutture ospedaliere per fare un corpo unico di tutto l’ospedale. Vengono poi rinforzate le antiche fondazioni con palificazioni e travature in cemento armato anche se qualcuno fa notare che un ospedale in mezzo alla città poteva essere un veicolo di infezioni dimenticando che in origine l’isola era stata usata proprio per separare i malati dal resto della città.

Dal 6 febbraio del 1972 il Fatebenefratelli è Ospedale Generale di Zona ed è articolato in venti divisioni specialistiche con 420 posti-letto, una media di ricovero di circa 18.000 pazienti all’anno e 800.000 visite mediche specialistiche annue.

Dall’ antichità , l’isola Tiberina, detta anticamente anche Insula Epidaurii ma anche Isola di San Bartolomeo, è collegata alla terraferma dai due ponti, il Cestio e il Fabricio.
Il ponte Cestio è quello che collega l’isola con il quartiere Trastevere, sulla riva destra del fiume. (per riva destra s’intende quella che è alla destra del senso di scorrimento delle acque)
Il ponte Cestio venne costruito nel 46 a.C. da Lucio Sestio ma ristrutturato completamente nel 370 d.C dagli imperatori Valente e Valentiniano.
Il ponte Fabricio , sulla riva sinistra del Tevere collega invece l’isola con il lungotevere Cenci, dalla parte del Ghetto ed è stato costruito nel 62 a.C. dal Curator viarum Lucius Fabricius in sostituzione di un ponte in legno allora esistente.E’ il più antico ponte romano perchè non è mai stato modificato nella struttura ed è ancora perfettamente funzionale. Solo il traffico veicolare è stato interrotto mentre è in atto quello sul ponte Cestio per le ambulanze e le urgenze.
Questo ponte Fabricio è detto anche “quattro capi”per la presenza di quattro teste poste sul parapetto all’inizio del ponte ma, secondo me, l’espressione popolare romanesca di “quattro capi” intende invece i quattro ingressi presenti , due per ogni ponte dell’isola e appunto a tutt’oggi si dice per indicare un luogo nelle vicinanze….” “Laggiù, verso ponte quattro capi…..”

Dice una leggenda popolare che i quattro architetti che dovevano restaurare il ponte al tempo di Sisto V, si dilungavano in estenuanti discussioni sul come procedere ai restauri , senza dare inizio al lavoro; il Papa, famoso per il suo carattere….poco conciliante, attese pazientemente che il restauro fosse realizzato e poi fece mozzare la testa ai quattro litiganti e le quattro erme poste sul muro del ponte Fabricio, sarebbero le riproduzioni delle loro sembianze

In realtà sono semplicemente le teste in marmo di Giano quadrifronte, trovate nei paraggi e poste nel 1849 all’’ingresso del ponte.


L’isola tiberina con a sinistra il ponte Cestio(lato destro dello scorrimento)
e a destra il ponte Fabricio.
In basso, a una sola arcata, i resti del ponte Aemilius
del 241 a..C. costruito da Marco Emilio Lepido, detto anche Ponte Rotto



Fra le curiosità, al centro della piazzetta principale esisteva un obelisco che fungeva da albero maestro erettovi più che altro per far assomigliare l’isola sempre più a una nave ma il monolite si ruppe in più pezzi e al suo posto fu collocata una colonna anche questa frantumatasi nel 1867 i seguito all’urto di un camion. Era chiamata la “colonna infame” come quella di Milano ricordata nel celebre romanzo omonimo del Manzoni. Sulla colonna dell’isola venivano segnalati i nomi di coloro che non si erano comunicati nemmeno nel periodo pasquale.-

Nella chiesa di San Bartolomeo c’è un affresco della metà del XIII secolo rapprersentante una Madonna con bambino .Nel 1557 una disasatrosa alluvione devastò Roma e l’acqua, penetrata nella chiesa e sommerse anche il dipinto ma una lampada votiva rimase accesa anche sotto le acque e per la devozione popolare. Quel dipinto da allora venne chiamato Madonna della Lampada.

Nella stessa chiesa , durante l’assedio francese di Roma del 1849, quando era stata proclamata la Repubblica romana, una cannonata francese colpì la chiesa durante una funzione ma nessuno dei presenti, miracolosamente, rimase ferito.Ora la palla di cannone è murata in bella vista nel punto dove è caduta.

Ma la più strana curiosità è che fra il 1867 e il 1903, presta la sua opera di “cavadenti” come lo chiamavano i romani, fra’ Giambattista Orsenigo.Il suo sistema per togliere i denti era molto sbrigativo….. senza anestetico e senza l’uso di tenaglie ma semplicemente con le dita, estraeva i denti dei malcapitati pazienti ma l’intervento era talmente rapido che il dolore provato dai suoi pazienti era minimo, e tutto in virtù di una forza muscolare eccezionale che il frate aveva nelle braccia.I denti che toglieva poi li conservava in una cassa e alla sua morte, aperta la cassa, vi si contarono oltre due milioni di denti . Questo fatto ha contribuito a dare all’ospedale una fama eccezionale nella specializzazione odontoiatrica e nella medicina dentistica.-
------------------------------------------------------------

venerdì 24 settembre 2010

LI FIORI TRASTEVERINI



LI FIORI TRASTEVERINI
(Romolo Balzani)

Lando Fiorini

De `sti giardini semo li mughetti,
semo Romani e `n più Trasteverini,
no pè vantasse semo li più perfetti,
cantamo tutti e semo ballerini.

Se dice che gente allegra Dio l'aiuta,
noi semo allegri e voi sapè perché?
Ogni tanto `na magnata e `na bevuta…
E tutto quanto il resto viè da sé!

Semo li fiori trasteverini,
semo signori…senza quatrini,
er core nostro è `na capanna,
core sincero che nun se te `nganna.

Si stai 'n bolletta, noi t'aiutamo
Però da micchi nun ce passamo…
Noi semo magnatori de spaghetti,
delle trasteverine li galletti.

Se dice nun è Roma de 'na vorta
dicheno che so tutti forestieri
lasseli chiaccherà che ce ne frega
Roma tornerà quella di ieri

Veneno tutti a Roma pe' noi è 'n vanto
la madre er padre se faranno anziani
li fiji fioriranno come incanto
nascenno a Roma naschero Romani

Le milanesi co' le toscane,
se `mpareranno a parlà Romane,
e se diranno: <pe' annasse a beve `n'antra foglietta>>.

La veneziana, ch'è fumantina,
la chiameremo cor nome Nina,
e le baresi e le napoletane…
lassatele passà che so' Romane!

Roma bella, Roma mia,
te se vonno portà via
er Colosseo co' Sampietro,
già lo stanno a contrattà…

Qui se vonno venne tutto…
cielo, sole e st'aria fresca,
ma la fava romanesca,
je la volemo a rigalà!

Venite tutti a Roma v'aspettamo
se dice che più semo e mejo stamo

domenica 12 settembre 2010

I 45 ANNI DE MATRIMONIO DER SOR TARQUINIO


Un piccolo componimento in romanesco fatto dar Curato pe i 45 anni de matrimonio
der Sor Tarquinio e della Sora Nanda....


A Mamma e Papà
Grazie!
Cò tanto amore a Tarquinio e Fernanda

Er più grosso rimpianto a stò monno che ‘n fijo ce po’ avè , è nun di’ pè tempo
quanto amore c’hai pe chi te c’ha messo drentro, ma siccome de tempo ce n’é, ce so un po’ de cose che dovete da sapè:

V’amamo da sempre perché coi sacrifici e cor core vostro nun c’avete fatto manca gnente, li giochi, lo studio , Porano , er mare seguito da quer dolce melograno colto da Papà, prima de arrivà all’Alberone…me sembra de assapora ancora quella bella senzazione!

Anche se la vita pare sempre annà ‘n salita, piena de difficortà , chi te frega, chi s’arabbia , chi pensa solo a magnà , na certezza eppur ce stà …è l’amore de Mamma e Papà! Nun c’è posto pe lo scoramento cò sti granni punti de riferimento;

Semo fiji fortunati ad avè Te , Mamma , sempre attenta e premurosa, a volte un po’ scontrosa, ma pe noi sempre dorce come na rosa, affiancata da un “gigante “ come Papà che te lo vojo aribadì è un granne esempio da seguì;

Se potessi o mio Signore suggeritte’ na soluzione, te direi daje Salute,Gioia e Serenità a sti du’campioni de bontà, pe spiegamme chiaramente, nun me frega proprio gnente ,de li sordi, de le case e eredità , li voremmo sempre qua!

Cari Mamma e Papà ste parole d’amore nun c’hanno scadenze vargono pe sempre!

Patrizia, Massimo , Antonella ,Lorella