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giovedì 12 agosto 2010

Monte dei cocci (a Testaccio) - der sor Maurizio



Un pò de cultura romana in quest'articolo dello storico Sor Maurizio:
Palatino, Esquilino, Aventino, Viminale, Quirinale, Celio, Campidoglio….

Questi sono i famosi sette colli di Roma che tanta importanza hanno avuto nella storia della città. Un insieme di sparpagliati e piccoli dossi tufacei montagnosi intorno ai quali l’acqua di piccoli fiumiciattoli scorreva per congiungersi poi con quella del Tevere.

Erano luoghi ideali per la difesa e su ciascuno di questi c’era un villaggio, ognuno col suo cimitero e con una sua organizzazione primitiva.

La comunità del primo re di Roma, quella di Romolo sul Palatino, riesce ad avere una ergemonia militare ed economica sulle altre e unisce i sette colli sotto il governo di un solo Re, romano, che si alterna nel tempo con un Re sabino; sono quattro Re che vanno da Romolo ad Anco Marzio.
Ma ecco giungere gli Etruschi conquistatori, che inglobano i sette colli,dentro un primo cerchio di mura, le cosidette Mura Serviane, costruite, secondo tradizione, da Servio Tullio, nel VI secolo a.C.

In realtà le mura , da recenti studi, sembra siano state edificate invece in epoca repubblicana.

Anche il Gianicolo è un colle ma allora non era nei piani romani di includerlo nella città: era situato dall’altra parte del Tevere come non lo era lo stesso Trastevere, ai suoi piedi, anche se pullulante di mercanti romani,etruschi,ebrei e greci, verrà inserito nelle mura Aureliane dall’omonimo imperatore, molto tempo più tardi fra il 270 e il 273 d.C.

Quando il Tevere faceva i capricci e inondava la città, lasciava uno spesso strato melmoso che, dopo la caduta dell’ Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C., raramente veniva rimosso dai responsabili comunali romani o dai Pontefici, se non nei casi in cui c’erano necessità di scavi per nuove costruzioni o per il recupero di antichi reperti.

Ed ecco, in questi casi, sorgere per la città vari accumuli di terreno che i romani chiamavano “monti”… originati dalla terra di risulta degli scavi che veniva accumulata nei paraggi.

Sorgono in questo modo varie alture artificiali per tutta la città come monte Savello, Monte Giordano, Montecitorio, Monte Cavallo ,Monte Testaccio…… ecco… proprio di questo monte ora vorrei parlare.

Qualche centinaia di metri a valle dell’Isola Tiberina, c’era già dai quei tempi antichi un porto fluviale, l’ Emporium , più tardi chiamato porto di Ripa Grande per distinguerlo dall'altro porto, più piccolo,il porto di Ripetta
A Ripa Grande approdavano le navi che facevano la spola dall’.entroterra al mare di Ostia, provenienti anche dall’Africa, dalla Spagna o dall’oriente.

Ogni genere di merce veniva sbarcata, conservata negli horrea, i magazzini, e poi smerciata.

Giungevano cotone, seta, sale, animali eper il vicino Foro Boario; derrate vegetali per il Foro Olitorio ma anche anfore di coccio per contenere olio, vino, granaglie, essenze, profumi ecc., erano i prodotti che venivano scaricati più volte al giorno.

Guarda caso, intuito del commercio, poco distante da questo enorme mercato, c’erano i forni per la costruzione delle anfore e di queste ce n’era veramente una enorme necessità.

I cretai raccoglievano l’argilla dalle rive del fiume e i mastri vasai la modellavano in recipienti di varie dimensioni coi loro torni e li ponevano a cuocere nei forni.

La plastica non c’era allora; usare il vetro per fabbricare grossi contenitori per liquidi o merci, sarebbe stato troppo oneroso e le anfore di argilla erano l’unico sistema di trasporto dei liquidi e delle granaglie.

Venivano costruiti otri, enormi orci e anfore di vari tipi utilizzati anche per il trasporto di liquidi e di sementi ma avevano un grosso problema… si rompevano facilmente e la fabbrica, che era lì a due passi, era pronta a sfornare contenitori di ogni capienza. I rottami dei fragili contenitori di argilla, compresi quelli derivanti dalla errata fabbricazione, venivano gettati in un unico posto, poco distante.

Col tempo quel deposito di rottami diviene un enorme accumulo di spezzoni di anfore,…. , si forma appunto una collinetta, il monte Testaccio dal latino testae (cocci) cioè monte dei cocci che poi ha dato il nome al popolare e romanissimo quartiere di Testaccio posto a fianco del colle Aventino e a ridosso del porto fluviale, all’altezza del ponte Sublicio; all’incirca cinque-seicento metri a valle dell’Isola Tiberina.

Inoltre per quei tempi, era più economico acquistare nuove anfore che pulirle e poi porle nuovamente in commercio: di conseguenza queste venivano distrutte.

Infatti i liquidi dei recipienti oleari e vinari, penetravano un po’ nelle pareti argillose interne delle anfore per cui era necessario oltretutto passare uno strato di calce per fermare e isolare il processo di decomposizione di quel piccolo strato interno di particelle guaste che avrebbe alterato il sapore degli altri nuovi liquidi immessi, come vino o olio.

Una ferrea disposizione d'altronde, vietava nel modo più assoluto di gettare quegli spezzoni di anfore rotte nel Tevere altrimenti questi cocci avrebbero potuto provocare grossi danni alle pale dei mulini ad acqua usati per la macinazione delle granaglie, che erano nelle vicinanze e gli accumuli nel fondo del Tevere di quei detriti, avrebbero provocato anche danni alle imbarcazioni che attraccavano nel vicino porto.

In anni e anni di accumuli di materiale frantumato e di detriti terrosi, si era formata una collinetta che aveva raggiunto un chilometro circa di circonferenza e un’altezza di una cinquantina di metri. Eppure i romani riuscivano a trarre utilità anche da quella piccola montagnola: l’argilla era un’ ottima conservatrice di freschezza e i mercanti di vino ne avevano subito approfittato per scavare lunghe gallerie nell’interno del monticello, per farne depositi per i loro vini più prelibati.

I fabbricanti di anfore, ogni mille pezzi costruiti, come anche per i mattoni, usavano scrivere il loro nome e l’anno di fabbricazione sulla base dei recipienti e da alcuni cocci ritrovati è risultato che le anfore erano datate dal 140 a.C. per giungere fino al III secolo d.C. ma l’usanza di depositare i cocci sulla collinetta si è protratta per tutto il medioevo ed oltre.

Su alcuni testi, risulta che nel periodo medioevale, dall’anno 1190 e fino alla fine dell’ottocento, si usava festeggiare in questa zona, le famose ottobrate romane.

L’ ottobre romano, dopo la furiosa calura estiva, è un mese in cui l’atmosfera assume tutte le caratteristiche di clima primaverile; il sole è tiepido, gradevole e il cielo è sereno; i tramonti sono multicolori e l’aurora è di una limpidezza affascinante e tutto questo clima così gradevole invoglia a gioire di questa atmosfera autunnale, prima che l’inverno cancelli ogni traccia del bel tempo estivo.

Il rione “Ripa Grande”, quel rione in cui è inclusa la zona testaccina, proprio in questo periodo si adornava di banderuole, festoni, ghirlande fiorite e la popolazione rionale ,come quella proveniente dagli altri rioni romani, era presa da una euforia festosa e gaudente.

Già verso alla fine di Settembre un lungo corteo in processione attraversava Roma partendo da piazza Navona e il popolo si accodava pregando e salmodiando. In coda al corteo i facchini raccoglievano le offerte del popolo romano per la festa del mons palii, il monte del Palio e il popolo di ogni rione romano offriva la sua parte di prodotti alimentari come damigiane di vino, prosciutti,ogni genere di salumi , formaggi o denaro per la festa delle ottobrate romane.

Ai primi del mese di ottobre, il Primo Senatore di Roma saliva sulla sommità del Monte dei cocci seguito da tutti gli altri senatori, nelle loro scintillanti corazze e armature, accompagnato da araldi, palafrenieri, e scudieri : piantava lo stendardo araldico di Roma sulla cima del monte Testaccio e annunciava ufficialmente l’inizio delle feste.

In presenza del Papa veniva ucciso un orso, simbolo del demonio; poi veniva soppresso uno stallone, immagine di superbia e infine un gallo, rappresentazione della lussuria. Poi iniziavano i giuochi di corse e di lotte dei rioni fra un girotondo di balli, salterelli, sbornie memorabili e pagnottelle con la porchetta. La stessa collinetta del monte dei cocci era un luogo ben protetto dove venivano fatti pascolare gratuitamente gli animali affinchè con i loro escrementi favorissero la crescita di prati folti e verdi per accogliere poi la popolazione nel periodo della festa rionale.

Uno dei giuochi in cui maggiormente si scatenava il tifo rionale era quello degli anelli, gara paragonabile alla odierna giostra del saracino : nel mezzo della piazza veniva posto un palo roteante su se stesso cui erano appesi vari anelli ciascuno con attaccato, uno di quei premi che erano stati offerti dai rioni. Un cavaliere, lanciato al gran galoppo, doveva infilare con una lunga pertica, almeno un anello e questo giuoco era motivo di accanite rivalità e scommesse fra i rappresentanti dei tredici rioni di Roma.

Strana e crudele era la “ruzzicàne de’ li porci”, il rotolamento dei maiali.

Dodici di questi animali, ben puliti e agghindati di stoffe di colore rosso.venivano posti, due a due, su sei carrette e trasportati in cima alla collina. Ad un cenno stabilito i carretti venivano abbandonati alla discesa in modo tale da farli scendere vertiginosamente lungo il pendio fino a sfasciarsi al raggiungere del terreno sottostante.

A questo punto si scatenava la lotta fra i rappresentanti rionali per accaparrarsi i poveri animali che terrorizzati correvano per ogni posto come fossero impazziti fra grugniti e strida quasi umane di paura mentre ragazzotti belli robusti se li contendevano dandosele fra di loro di santa ragione per poterli catturare e vantarne la proprietà per loro stessi e per il loro rione.

Al culmine della confusione alcuni tori venivano pungolati con le pertiche per indirizzarli sul luogo della caccia al maiale…. Il caos raggiungeva il massimo perché i tori andavano ad accanirsi sui maiali con le loro drappe rosse e non è che facessero poi tanta distinzione nell’incornare un animale o un uomo, mandando i malcapitati a gambe e zampe levate…. e il tutto fra le risate degli astanti nel vedere il coraggio o le fughe o le lotte dei baldi giovani intenzionati soprattutto ad accaparrarsi un maialino da portare al rione come premio di abilità e di coraggio.

Poi cavalcate, giostre di ogni tipo, stornellate, alberi della cuccagna oppure il famoso giuoco della pentolaccia, concludevano il giorno inaugurale dell’ottobrata romana , fra gli scoppi dei fuochi pirotecnici. Quasi tutte le manifestazioni si ripetevano per tutti i giorni del mese.

Nel 1650 Urbano VIII abolisce queste tradizionali usanze finchè anche la festa resta priva delle sue caratteristiche principali fino ad esaurirsi spontaneamente avendo perso ogni significato originale.

Rimase però delle ottobrate romane, l’usanza di festeggiarle “for de porta” intendendo allora con questa frase la scampagnata fuori delle mura quando ancora oltre quel limite c’era la campagna e le famiglie (in questo caso i fagottari) si portavano dietro l’occorrente per fare quello che oggi chiamiamo il pic-nic sull’erba: borsoni contenenti varie cibarie, dai rigatoni già cotti e conditi alle fettine panate e all’insalata , tutto meticolosamente avvolto in pacchi o in contenitori di vetro e senza farsi mancare il classico fiasco di buon vino dei Castelli.

Unica cerimonia ufficiale rimasta fino alla fine dell’800, è stata quella della processione della Via Crucis del venerdì Santo considerando la montagnola di Testaccio come una similitudine del Calvario.

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